sabato 11 maggio 2013

La mia voce nel telefono.

La mia voce nel telefono, lenta.

Le mie parole, cadenzate dal vino rosso che sorseggio, lo stesso che avevo scelto per te, oggi, quello che bevevi, scrivendomi.

Eri ancora vestita di bianco, allora: il tuo completino di cotone, quello più semplice, le mutandine e il reggiseno con cui potrei mostrarti, quasi casta, pudica, a chiunque.

Scrivimi, ti ho chiesto, le parole che ti leggerò stasera: perditi. Perdi ogni pudore, rinuncia alla tua castità, per me.

Ora indossi quello che ho scelto per te, per ascoltarmi. Il poco che ti serve stasera, ti ho detto: scarpe e calze nere che declamino oscene, senza possibilità di smentite, la tua fica grande, aperta. La tua fica puttana.

Perchè non ascolterò altro, ti ho detto, da te: se non l’urlo silenzioso, onda che cresce fino alla tempesta, del tuo buco rosso e rosato, in mostra per me.

Tieni le tue dita lì intorno, lì vicino, a sfiorarti i peli piccolini, le pieghe più carnose del tuo pube. Immobili.

Dovrai aspettare molto, molto a lungo stasera, così: imparare a lasciare, che io decida di te.

martedì 7 maggio 2013

Ben piantato, in fondo alla tua gola.

A uno a uno, prendendomi tutto il tempo necessario, fermandolo, se necessario, il tempo. Per noi.

Voglio leggerli lì dentro, attraverso la sottile membrana del tuo palato, in trasparenza, come t’avessi denudato anche il cervello: leggerli tutti, i tuoi pensieri, e quelli sconci, quelli osceni soprattutto, quelli per i quali la vergogna non ti concede ancora parola.

Voglio leggerli e sentirli risalire lungo l’asta inflessibile del mio cazzo, sentirli scendere e circolare nei percorsi misteriosi delle mie palle, voglio che si mischino, i tuoi pensieri osceni, con lo sperma denso che quasi respiri, attraverso la tenera pelle del mio scroto, che ti accarezza il mento.

Tu non farai nulla: seni esposti, braccia alzate nella resa. Tutta la tua mente, concentrata, coagulata attorno al respiro ritmato, con cui mi fai spazio, più profondamente che puoi.

Comunichiamo, attraverso il mio cazzo. Ti leggo dentro, dove nemmeno tu conosci.

E il mio sperma abbondante, il mio sperma e il tuo segreto, scende dritto nel tuo stomaco, uno schizzo per ogni tuo mistero.

Svelandoti, tutta.

lunedì 6 maggio 2013

Nel tuo ano, la mia firma.

Ho comprato quelle calze per te, una volta.

Tu ancora non sapevi perchè, le hai indossate con pudore, avevi pure le mutandine nere, quella sera. Un perizoma sottilissimo, ma ti copriva almeno il buco del culo, le labbra della fica invece continuavano a uscirti dai bordi, di lato - me ne sono accorto toccandoti sotto la gonna, mentre guidavi, mentre eravamo seduti accanto, nel cinema, di sfuggita mentre eri in piedi davanti a me, al bancone di un bar, e mi ordinavi una birra rossa come, ho pensato, la tua fica.

Indosserai quelle calze quando desidero incularti, ti dissi mentre ti spogliavi. Ti insegnai a non usare più le mutandine, indossandole: hai bisogno di allargare bene le gambe, quando ti inculo, e con le mutandine non riesci.

Sono ormai alcune volte che lo faccio, e guardandoti ho la sensazione che il tuo culo abbia registrato i segni del mio passaggio, come un diario, una scultura che emerge colpo dopo colpo.

Il tuo buco del culo ora cede, ti ho detto l’ultima volta, mentre ti tenevi le natiche aperte, con le mani, e finalmente mostravi oscenamente il buio che hai dentro, oltre le rugosità delicate del tuo fiorellino sverginato.
Finalmente si vede, che ti ho inculato io, ti ho detto, e intanto il cazzo scivolava dentro ancora una volta, e una mano stringendoti il fianco ti liberava dalle ultime resistenze.

Sei tela bianca, dentro il buco del culo, e devo dipingerti col mio cazzo, ti ho detto.
Sentilo, senti come la punta ti tocca, ti colora tutta, dentro, nel fondo del tuo intestino, in posti di te che non vedi, non conosci.
Affondo, intingo nel colore e poi affondo ancora il mio cazzo. Incido, tratteggio, contemplo.
Strappo il tuo culo alla natura, lo restituisco all’arte del mio fare.

E infine, col mio sperma, ti firmo.

domenica 5 maggio 2013

Apriti che devo entrarti.

Le parole uscivano dalla sua bocca come disegnando un'onda, un saliscendi di alti e di bassi, a tratti interrotto, silenziato quasi – a spezzarne le parole, quasi se le rimangiasse.

Apriti che devo entrarti, le avevo detto, solo questo. Aveva aperto la piccola fregna, tutta coperta di peli spessi e neri, arricciati dalla voglia che le scorreva dal ventre: il sole di quel pomeriggio colorava la sua intimità di tutte le gradazioni del viola, fino al rosso luminoso del sacrificio più profondo.

Né questa volta, né le altre facevamo l'amore: il suo corpo minuto, destinato alla dolcezza, e il mio, che l'esperienza, l'età e l'esercizio nel fotterla avevano reso ancora più virile e robusto, testimoniavano senz'altre parole la concretezza, la crudezza del sesso che ci univa. Apriti che devo entrarti, era il mio abracadabra; e mentre le piccole labbra della sua fessura si schiudevano, come forzate dal mio sguardo, le innalzavo fra le cosce spaccate il mio monumento al sesso, tutta l'arte che le avevo insegnato e che lei venerava col suo ventre, con la sua esistenza.

Quasi avevo temuto di romperla, quella volta, come ogni altra; temuto e desiderato follemente di poterla lacerare, penetrandola, irreparabilmente, nell'animo e nel corpo, tanto mi sembrava potente lo strumento con cui l'avrei incisa, di contro alla delicata, ed esperta malizia del suo pube nero, paradossalmente ancora spalancato e chiuso.

Apriti che devo entrarti, avevo sussurrato appena, con la voce; quasi urlandolo, invece, con la mia cappella scoperta, severa, con cui le massaggiavo la fregna, tutta, fino a trovarlo, finalmente, quello scoglio piccolo e duro contro cui cozzare, più volte: come uno scontro, una piccola guerra che le piegava il capo e l'animo, sottomessa, definitivamente, alla legge della necessità più forte.

Vincerla e fotterla era tutt'uno, ogni volta e anche quella: come a svuotarmi in un colpo solo di tutta la voglia trattenuta nell'addome e nel petto, le scagliavo il nome sul viso, ferocemente urlato, e il cazzo, contro il fondo della fica, come una dura martellata assestata dal mio corpo. Mi guardava e declinava scuse e preghiere e gratitudine, a labbra chiuse, con una lacrima sottile che le scendeva da un occhio solo, ogni volta; hai una fregna che si bagna anche lì, sul viso, le dicevo ridendo, e caricavo un altro colpo e poi di nuovo, un altro ancora, per guardarla gocciolare.

Poi, più piano, quella volta, avevo preso a danzare nel suo varco finalmente riservato e dedicato al mio bisogno, finchè ne avessi; lentamente l'avevo girata su sé stessa, facendola ruotare attorno al perno che l'aveva infilzata e trapassata nella carne e nei pensieri, finchè non m'aveva offerto l'unica sua morbidità, quella del culo volgare e rotondo, dove aveva nascosto a tutti e a sé stessa, ma non a me, infine, la sua perversione. Dandole tutta la spinta del mio cazzo, come primo motore, l'avevo trascinata, a poco a poco, da dietro, fino alla sua libreria, che da tempo, come la sua fregna, mi accoglieva nella forma dei libri, i miei, di cui si cibava voluttuosa, a volte fino a rinunciare al sonno, al pasto, alla masturbazione perfino, mi diceva.

Apriti che devo entrarti, le avevo ripetuto, e la sua bocca si era schiusa per raccogliere e serrare fra i denti uno fra i libri, che le aveva fatto pulsare la fica al solo ricordo, mentre lo mordeva affamata. Sull'una, poi sull'altra natica l'avevo battuta, con la mano secca e dura, senza estrarre il paletto impietrito che le avevo piantato bene in fondo; come a darle un tempo, un ritmo, l'avevo battuta crudelmente, finchè la voce, pian piano, prese forma, una voce sinuosa che solo il mio sesso spietato le donava:

Due voci mi parlavano. Una, insidiosa e ferma, diceva: "La terra è un dolce pieno di dolcezza; io posso ( e il tuo piacere sarebbe allora senza limiti) infonderti un appetito d’eguale grossezza".
E l’altra: "Vieni, oh, vieni a viaggiare nei sogni, al di là del possibile, al di là di quanto si sa!". Un verso, dietro l'altro, tanti, dopo questi, lentamente con la voce che tremava, ma senza fermarsi: a tratti i suoni quasi si piegavano, arretrando come rumori distorti, poi, come sollecitati dalla mia necessità, tornavano a marciare ancora, come a dare senso e direzione al desiderio che le agitavo dentro, come a mescolarne i pensieri, da tanto.

Apriti che devo entrarti, le dissi ancora, con la voce approfondita, temperata dal tempo passato a fotterla in silenzio, estraendo ogni suono da lei, dirigendone il corpo come un'orchestra. Lo feci io per lei, però, questa volta: premendo il suo volto sul libro, le spensi la voce, quasi come soffocando il lume di un'esile candela; e il mio cazzo bagnatissimo di lei, e pulsante dell'orgasmo imminente, sprofondò nel buco del suo culo appena schiuso, l'umile vaso in cui seminavo il mio piacere, invocando il nome di lei ad ogni schizzo.

Così arai e seminai, anche quel giorno, la mia femmina; il cazzo, appoggiato al suo viso, continuò a sussurrarle a lungo, poi, i pensieri che lei stessa da troppo si taceva. Il suo ventre, sigillato da ogni parte dai nastri che avevo apprestato per richiuderla, digeriva la mia lezione, profondamente, dove la sua mente non sarebbe mai arrivata, dove solo l'aveva aperta e sorpresa, dove senza difese, il mio cazzo.

venerdì 3 maggio 2013

Davanti alla finestra aperta.

Una sola notte e un solo giorno, altrove, lì.

Un borgo semivuoto, quella stanza al primo piano, quella finestra sulla stradina fra il bosco e le case.

Nuda, bendata, per tutto questo tempo. La tenda chiusa, il possesso di te, al buio, per terra, contro il muro, alla luce, nel bagno, dopo averti accompagnata a pisciare, dopo averti lavato i buchi per poterli leccare, usare ancora freschi, di nuovo.

E su quella poltrona, pure.
Prima di spostarla, di aprire la tenda, di sistemarti lì, bendata, nuda, le cosce aperte contro la luce del tramonto, le tue mani, poggiate lì, dove la tua pelle si fa rossa, sensibile, ferita.

Tornerò fra un’ora, ti ho detto. Passerò qui davanti ogni tanto, per controllare che tu stia godendo.